© ph. Matteo Marioli

Plastica, il cibo d’asporto si reinventa in chiave ecologica

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Dopo aver promosso i sacchetti di plastica leggera e biodegradabile, l’Europa guarda al 2030 e ha assunto una nuova iniziativa a tutela dell’ambiente. Dal 3 luglio scorso, con l’entrata in vigore della direttiva Sup sulle plastiche monouso (Single Use Plastic) ha di fatto messo al bando gli oggetti di plastica usa e getta. Così anche il mercato della vendita di cibo d’asporto si reinventa in chiave ecologica.

Otto  i prodotti in plastica monouso banditi. Dai cotton fioc, alle cannucce, ai bastoncini per cocktail, passando per le bacchette per palloncini, oltre a posate, piatti, tazze e contenitori per alimenti, insieme a prodotti di polistirolo espanso e prodotti oxodegradabili, cioè quelli che contengono un additivo che li degrada in frammenti di micro-plastica.

UN PROBLEMA DI DIMENSIONI MONDIALI
A livello mondiale, si calcola che ogni annonel mare finiscono otto milioni di tonnellate di rifiuti in plastica,
di cui il 17,3% è costituito da imballaggi alimentari abbandonati sulle spiagge, il 17,1%, da cannucce, seguite dalle posate (9,2%) e dai bicchieri di plastica (3,1%). Di questi, un terzo rimane in superficie creando a volte grandi isole, come quella nell’oceano Pacifico già identificata negli anni ’70, oppure quelle scoperte più recentemente tra l’America del Sud e l’Africa meridionale, o ancora più vicino a noi, nel mare Tirreno tra l’Elba e la Corsica.

Posate, bicchieri, piatti e cannucce di plastica © ph. Matteo Marioli

La maggior parte delle volte di questi rifiuti, però, si ritrovano sui fondali per poi finire ingoiati da balene, delfini e pesci sotto la forma di frammenti talmente piccoli che vengono confusi con il plancton. Così entrano nella catena alimentare, e li troviamo nei nostri piatti. Nel nostro continente pare che questi prodotti costituiscano il 70% dei rifiuti marini secondo la Commissione Europea.

 

È così che, in piena emergenza climatica, Bruxelles ha adattato nel 2019 la direttiva 904, la cosiddetta SUP (Single Use Plastic), per ridurre l’impatto della plastica nei mari e sulle spiagge. Ma la plastica era già nel suo mirino dal 2015, con il piano d’azione per l’economia circolare che ha condotto poi, nel 2017, ad imporre la riciclabilità di tutti i imballagli entro il 2030, e a lanciare l’anno successivo la strategia per ridurre l’inquinamento da plastica monouso, concretizzata nella direttiva (UE) 2019/904.

Cannucce di plastica © ph. Matteo Marioli

LE ALTERNATIVE
Le misure previste da questa normativa non prevedono un divieto fermo e definitivo della plastica
, ma da una parte una riduzione scaglionata del suo consumo, e dall’altra una progressiva limitazione dell’immissione sul mercato di prodotti in plastica. Nel contempo, sono stati invece avviati fin da subito i requisiti di etichettatura e quelli in termini di composizione, al fine di informare i consumatori sulle soluzioni appropriate per la gestione dei rifiuti, nonché sugli effetti nocivi della presenza di plastica nell’ambiente.

E anzi, se i dati diffusi a giugno dall’Associazione Europea dei Produttori di Materie Plastiche per quest’anno di pandemia rivelano un calo del 5,1% della produzione europea e del 7% del consumo di plastica vergine – ovvero plastica nuova e non riciclata. Questi prodotti dovranno ormai essere realizzati solo con materiali più rispettosi dell’ambiente come legno, cartone o plastica riciclabile, anche perché esistono sul mercato alternative convenienti.
Gli Stati membri avevano due anni per organizzarsi. In Francia ad esempio questi prodotti sono banditi dal 1° gennaio 2021. Ma per l’Italia, che rappresenta più del 60% del mercato dell’usa e getta, la direttiva 904 è un colpo duro!
Né i politici, né le imprese sono riusciti a levare una voce unitaria per chiedere una deroga. E quando il 7 giugno scorso sono state pubblicate le linee guida, non vi sono più state alternative per le circa 10.000 nostre aziende coinvolte, con il rischio di importantissime perdite di posti di lavoro.

Bicchieri di plastica © ph. Matteo Marioli

L’ITALIA E LA BIOPLASTICA
È ovvio che, con un fatturato annuale di 815 milioni di euro, l’Italia sia impegnata nella causa ecologica, in particolare investendo nella bioplastica, cioè nella plastica ottenuta con materiali biodegradabili e compostabili, tanto da produrre il 66% di tutta la plastica biodegradabile d’Europa.
Per capire bene la situazione, bisogna entrare nel merito.
Se a livello legale la normativa UNI EN 13432:2002 prevede una biodegradabilità per almeno il 90% in 180 giorni, a livello tecnico la definizione data dall’Associazione europea delle bioplastiche integra sia quelle che derivano da una miscela formata da acido lattico, amido (di mais, frumento, patate, tapioca o riso) e scarti della lavorazione del petrolio, che quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri o lipidi. Ma nei fatti la biodegradabilità di un materiale dipende più dalla struttura chimica e dell’ambiente che lo circonda piuttosto che dalla materia prima di cui è costituito.
Per esempio quando un imballaggio biodegradabile finisce in ambiente marino le condizioni di temperatura, l’assenza di ossigeno e la carica batterica non permettono di determinarne la durata. Anzi l’ambiente marino sembrerebbe giovare alla conservazione della plastica!
Nel 2018 un rapporto della Commissione UE ha concluso che non esistono elementi definitivi per poter parlare di biodegradazione completa in un periodo ragionevole come quello di 90 giorni.

Così entrano in questo quadro anche il polietilene e il PET, che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali. Utilizzati ad esempio per la produzione delle bottiglie per l’acqua minerale, rappresentano il 24% della produzione non tradizionale. Certo, il loro ciclo di produzione presenta un’impronta di carbonio più bassa rispetto alla plastica tradizionale, ma questa plastica quasi non si degrada.
Quindi, se per l’Europa esiste solo la plastica riciclabile, tutte le altre, anche se biodegradabili, come le cosiddette oxodegradabili, sono appunto messe al bando dalla direttiva.

Al momento non esiste alcuna norma che imponga dettagli precisi per l’etichettatura ambientale di una bioplastica e per il consumatore c’è una bella confusione, oltre al rischio per ogni paese di trovarsi in condizioni di infrazione.
Per ora l’applicazione delle direttive europee e le multe sono rimandate a ottobre (quando dovrebbe essere approvato il dlgs con il quale la direttiva UE sarà applicata in Italia).

Altre tappe importanti della direttiva: nel 2024 il costo delle attività di raccolta e di smaltimento per quanto riguarda alcuni prodotti come filtri di sigarette (l’acetato di cellulosa di cui sono composti si degrada molto lentamente), palloncini, reti da pesca e salviette umidificate dovrà essere a carico dei produttori, mentre oggi è a carico del consumatore al 65%.

Nel frattempo entro il 2029 gli stati membri dovranno raggiungere altri due obiettivi: raccogliere e trattare il 90% delle bottiglie di plastica e produrre bottiglie di plastica destinate al mercato comune con un contenuto riciclato pari almeno il 25%.

La sostituzione dei materiali però, da sola, non risolve il problema. Occorre prima di tutto cambiare i nostri comportamenti!

© ph. Matteo Marioli

 

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